giovedì 3 giugno 2010

LECTIO DIVINA, SOLENNITÁ DEL CORPO E SANGUE DI CRISTO


Preghiera iniziale
O Dio, che con il dono del tuo Spirito, guidi i credenti alla piena luce della verità, donaci di gustare nel tuo Spirito la vera sapienza e di godere sempre la gioia del tuo Regno, già presente in mezzo a noi, per Cristo nostro Signore. Amen.
Prima lettura Gen 14,18-20
Questo breve brano fa parte del 14° capitolo della Genesi, che è uno dei capitoli più enigmatici della storia patriarcale. Melchisedek riappare nella Bibbia ebraica solo in Sal 110,4, entra in questa scena all’improvviso “senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita” (cfr. Eb 7,3). Seguendo l’autore della lettera agli Ebrei, si può così spiegare: “il suo nome tradotto significa re di giustizia, inoltre è anche re di Salem, cioè re di pace” (Eb 7,2). Secondo l’ideologia regale dell’Antico Vicino Oriente, il re era anche sacerdote.
L’interesse del racconto si concentra sulla “benedizione” pronunciata da Melchisedek e sulla decima pagata da Abramo. Effettivamente,il brano è costruito su di una funzione sacerdotale, che consiste non nell’offerta  del sacrificio, ma nella “benedizione” che Melchisedek invoca su Abramo. Il pane e il vino da lui offerti al patriarca di ritorno dalla vittoriosa campagna militare, sono segno di ospitalità e di amicizia. Solo in questo senso hanno valore sacro. La benedizione, invece, ha due direzioni: è una benedizione “costitutiva”, perché quando il Dio creatore benedice, pone in essere una storia (v.19b),  in questo senso il re e sacerdote Melchisedek risulta mediatore di quella “benedizione” che gli altri testi biblici fanno giungere su Abramo con un intervento diretto di Dio.  Inoltre, questa benedizione è “dichiarativa”, perché l’uomo non può che riconoscere l’azione benedicente di Dio (v.20a), infatti Melchisedek si rivolge al Dio altissimo, nel senso evidente di un ringraziamento alla divinità per la protezione e l’aiuto concessi ad Abramo.
L’interpretazione cristologico – liturgica di questo brano, vede in Cristo l’attuazione di una realtà appena adombrata nei testi dell’AT.  Infatti  nel Nuovo Testamento, specialmente la lettera agli ebrei cap 7, rilegge la figura misteriosa di Melchisedek in chiave cristologica. Secondo l’autore,  Melchisedek  è una  figura profetica di Cristo. Lo sconcertante silenzio della Scrittura (Gn14) sui suoi antenati e sui suoi discendenti, suggerisce che il sacerdozio da lui rappresentato è eterno e libero da considerazioni dinastiche (Eb 7,1-3; 15-17 E Sal 110,4). Il fatto che Melchisedek benedice Abramo, il depositario delle promesse, è anche molto significativo perché l’atto della benedizione dimostra  una relazione interessante: “l’inferiore, riceve la benedizione da un “superiore”. Quindi la benedizione di questo re straniero, la cui grandezza non dipende dalla certezza di una genealogia, è segno della superiorità di questo sacerdote (Cristo) su Abramo e la sua discendenza (cfr Rm 9,12). Anche la decima pagata da Abramo, dimostra la medesima superiorità. Melchisedek, che “non era della loro stirpe”, riceve la decima dallo stesso patriarca e in lui anche Levi in qualche modo l’ha pagata all’eterno sacerdote . Di fatto,  la decima pagata ai sacerdoti levitici (Nm 18,25-32) cfr Dt 14,22+), era il salario per il loro ufficio cultuale e costituiva anche l’omaggio reso all’eminente dignità del loro sacerdozio. Se quindi lo stesso Levi, in Abramo grande patriarca, ha pagato la decima a Melchisedek, questi rappresenta un sacerdozio superiore.
Ricapitolando, Melchisedek è anzitutto, “sacerdote del Dio Altissimo”, e prefigura Cristo nella sua duplice qualificazione di Re messianico e Figlio di Dio. Cristo, in realtà, secondo il significato del nome Melchisedek, sarebbe L’Unto di Dio che stabilisce la giustizia e la pace, portando a compimento le antiche promesse. É il Mediatore tra Dio e l’uomo  per eccellenza, offre a noi il pane e vino, segni del suo tesso corpo e sangue, dono totale di se stesso a noi, suoi amici. Tutto questo  avviene in modo del tutto particolare nella  celebrazione eucaristica.
Seconda lettura 1Cor 11, 23-26
Il testo costituisce il centro della proposta biblica circa il significato della solennità odierna. Nella prima lettera ai Corinzi abbiamo la testimonianza diretta della vita della chiesa, che si ritrova a compiere lo stesso gesto di Cristo e a ripetere le sue parole pronunciate nell’ultima cena con gli apostoli. Non si tratta del racconto storico di quanto avvenuto meno di trent’anni prima, ma della tradizione liturgica che celebra il “memoriale” di un avvenimento carico di molti significati.
vv23a. “ho ricevuto…ho trasmesso”:  si usano  qui due verbi tecnici che esprimono il meccanismo della tradizione: più che vedervi il riferimento all’esperienza sulla via di Damasco (At 9,1-19) o qualche altra rivelazione avuta da Paolo di cui tacciono le fonti, è preferibile scorgervi il riferimento a una tradizione trasmessa per via orale risalente direttamente a Gesù, cui a maggior ragione risale la celebrazione della cena del Signore.
vv 23-25. Questi versetti riportano il racconto vero e proprio della tradizione della cena del Signore, mentre gli altri sono piuttosto di commento e di attualizzazione. Il senso abbraccia il mistero complessivo della morte salvifica di Cristo che, “fu consegnato” da Dio alla morte (cfr. Gv 3,16; Rm 4,25; 8,32; Gal 2,20; 1Gv 4,10).  Il pane e vino erano già elementi rituali del pasto sacro, ma Gesù li identifica con se stesso. Dandoli in cibo agli apostoli, fa loro capire di volerli unire a sé nella nuova alleanza che sta compiendo con l’offerta della propria vita. L’espressione  “che è per voi”  si avvicina a Lc 22,19, che la esplicita  dicendo “che è dato per voi”: si sottolinea il valore espiatorio e salvifico della morte di Cristo per gli uomini. Questo è evidenziato ancora di più dalle parole dette sul calice relative al sangue: “è la Nuova Alleanza nel mio sangue”: è nuova questa alleanza perché è stipulata nel sangue di Cristo e si contrappone all’antica” stipulata da Mosè (Es 24,8) con il sangue degli animali. “fate questo..”: è  il precetto categorico di Gesù di ripetere e rinnovare la sua ultima cena. “in memoria di me”: memoria, (in greco anamnesis), richiama  la portata teologica di Es 12,14; 13,9. Perciò non si tratta di un semplice ricordo psicologico, ma di una vera e propria attualizzazione sotto forma sacramentale dell’ultima cena di Gesù. Nell’Eucaristia infatti, noi crediamo la presenza reale del nostro Signore Gesù Cristo.
v.26. “Ogni volta infatti…annunziate la morte del Signore”: Paolo interpreta e commenta  teologicamente il dato tradizionale suesposto servendosi del concetto di “memoriale”.  Celebrare la cena del Signore significa, quindi, attualizzare  il suo amore espresso con la sua morte ed annunziarla, proclamarla sia con i gesti, sia con le parole “finché egli  venga”: oltre ad esprimere l’attesa, da parte della chiesa, della seconda venuta di Cristo, si sottolinea che l’Eucaristia sta tra la morte di Gesù e la sua seconda venuta.
Il Vangelo: Lc 9,11b-17
Contesto
Il  testo si trova a metà del Vangelo di Luca: Gesù espande ed intensifica la sua missione nei villaggi della Galilea e manda i dodici discepoli ad aiutarlo (Lc 9,1-6).  La notizia di tutto questo raggiunge Erode, colui che mandò ad uccidere Giovanni Battista (Lc 9,7-9).  Quando i suoi discepoli ritornano dalla missione, Gesù li invita ad andare in un luogo solitario (Lc 9,10).  Qui segue il nostro testo che parla della moltiplicazione dei pani (Lc 9,11-17). Subito dopo Gesù pone una domanda: “Chi sono io secondo la gente?” (Lc 9,18-21).  Detto questo, per la prima volta, parla della sua passione e della sua morte e delle conseguenze di tutto ciò per la vita dei discepoli (Lc 9,22-28). Avviene la Trasfigurazione, in cui Gesù parla con Mosè e con Elia della sua passione e morte a Gerusalemme (Lc 9,28-43).  Segue un nuovo annuncio della passione, con sbalordimento ed incomprensione da parte dei discepoli (Lc 9,44-50). Infine, Gesù decide di andare a Gerusalemme, dove incontrerà la morte (Lc 9,52).
Spiegazione
v.10: Gesù e i discepoli si ritirano in un luogo solitario
I discepoli ritornano dalla missione a cui sono stati inviati (Lc 9,1-6).  Gesù li invita a ritirarsi con lui in un luogo solitario, vicino a Betsaida, al nord del lago di Galilea.  Il Vangelo di Marco aggiunge che lui li invita a riposarsi un poco (Mc 6,31). Descrivendo la missione dei 72 discepoli, Luca descrive la revisione dell’azione missionaria da parte di Gesù, azione svolta dai discepoli (Lc 10, 17-20).
v.11: La folla cerca Gesù e Gesù accoglie la folla
La folla sa dove si trova Gesù e lo segue. Marco è più esplicito. Dice che Gesù e i discepoli vanno in barca e la folla segue a piedi, per un altro cammino, in un luogo determinato. La folla giunge prima di Gesù (Mc 6,32-33). Giunti al luogo del riposo, vedendo quella folla, Gesù l’accoglie, parla del Regno e cura i malati.  Marco aggiunge che la folla sembra un gregge senza pastore. Dinanzi a questa situazione della folla, Gesù reagisce come un “buon pastore”, orientando la folla con la sua parola ed alimentandola con pani e pesci (Mc 6,34ss).
v.12: La preoccupazione dei discepoli e la fame della folla
Il giorno comincia a declinare, si avvicina il tramonto. I discepoli sono preoccupati e chiedono a Gesù di allontanare la folla.  Dicono che nel deserto non è possibile trovare cibo per tanta gente.  Per loro l’unica soluzione è che la folla vada nei villaggi vicini, a comprare pane. Non riescono ad immaginare un’altra soluzione.
Tra le linee di questa descrizione della situazione della folla, appare qualcosa di molto importante. Per poter stare con Gesù, la gente dimentica di mangiare.  Vuol dire che Gesù deve aver saputo attrarre la folla, fino al punto che questa dimentica tutto nel seguirlo per il deserto.
v.13: La proposta di Gesù e la risposta dei discepoli
Gesù dice: “Date da mangiare alla folla”. I discepoli sono spaventati, poiché hanno solo cinque pani e due pesci.  Ma sono loro che devono risolvere il problema, e l’unica cosa che viene loro in mente di fare è andare a comprare pane.  Hanno in mente solo la soluzione tradizionale, secondo cui qualcuno deve procurare pane per la gente.  Qualcuno deve procurare il denaro, comprare pane e distribuirlo tra la folla, ma in quel deserto, questa soluzione è impossibile. Loro non vedono un’altra possibilità di risolvere il problema. Ossia: se Gesù insiste nel non rimandare la gente a casa loro, non c’è soluzione per la fame della folla. Non passa loro per la mente che la soluzione potrebbe venire da Gesù e dalla folla stessa.
vv.14-15: L’iniziativa di Gesù per risolvere il problema della fame
C’erano lì cinquemila persone. Molta gente! Gesù chiede ai discepoli di far sedere la folla in gruppi di cinquanta. Ed è qui che Luca comincia ad usare la Bibbia per illuminare i fatti della vita di Gesù. Evoca Mosè.  E’ lui infatti che, per primo, dà da mangiare alla folla affamata nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto (cf. Num cap. 1 a 4). Luca evoca anche il profeta Eliseo. È  Eliseo,  infatti, che nell’Antico Testamento fa bastare pochi pani per sfamare una moltitudine di gente e perfino avanzano (2 Re 4,42-44). Il testo suggerisce quindi che Gesù è il nuovo Mosè, il nuovo profeta che deve venire nel mondo (cf. Gv 6,14-15). La moltitudine delle comunità conosceva  l’Antico Testamento, ed a buon intenditore basta mezza parola. Così vanno scoprendo, poco a poco, il mistero che avvolge la persona di Gesù.
v.16: Evocazione e significato dell’Eucaristia
Dopo che il popolo si siede per terra, Gesù moltiplica i pani e chiede ai discepoli di distribuirlo. Qui è importante notare come Luca descrive il fatto. Dice: “Gesù prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla”.  Questo modo di parlare alle comunità degli anni ’80 (e di tutti i tempi) fa pensare all’Eucaristia. Poiché queste stesse parole saranno usate (e lo sono tuttora) nella celebrazione della Cena del Signore (22,19).   Infatti, sono stati più volte sottolineati i legami letterali che uniscono questo racconto a quello dell’ultima cena e a quello dei discepoli di Emmaus (Lc 22,19; 24-30). Luca suggerisce che l’Eucaristia deve portare alla moltiplicazione dei pani, che vuol dire condivisione. Deve aiutare i cristiani a preoccuparsi dei bisogni concreti del prossimo. È  pane di vita che dà coraggio e porta il cristiano ad affrontare i problemi della folla in modo diverso, non dal di fuori, ma dal di dentro della gente e in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo.
v.17: Il grande segnale: tutti mangeranno
Tutti mangeranno, si sazieranno ed avanzeranno ceste intere! Soluzione inattesa, realizzata da Gesù e nata dal di dentro della folla, partendo da quel poco che avevano portato, cinque pani e due pesci. Ed avanzano dodici cesti dopo che cinque mila persone hanno mangiato cinque pani e due pesci! La moltiplicazione del cibo materiale è soltanto “segno” e prefigurazione di un altro cibo che sarà caratteristico del regno messianico e che sarà distribuito a tutti in misura sovrabbondante (le “dodici ceste” avanzate)
Breve riflessione:
Letto e riflettuto  attentamente, l’episodio della moltiplicazione dei pani ci porta dunque nel cuore del mistero eucaristico. Esso viene presentato nei suoi aspetti qualificanti: l’annuncio del “regno”, la centralità della persona di Gesù, il bisogno della folla costituita in comunità di credenti, il pasto con un cibo misterioso distribuito dagli apostolo, la sazietà che ne consegue, accompagnata dalla possibilità di continuare a cibarsi dello stesso pane. Non è difficile vedere adombrata in questi elementi la comunità cristiana radunata per la cena attorno al suo Signore, che è presente e opera la salvezza per tutti.
I testi biblici presentati dalla liturgia odierna, ci orientano a leggere il mistero eucaristico a partire dalla persona di Gesù-sacerdote. Ma questa “funzione” non va interpretata alla luce di un sacerdozio di tipo levitico, bensì sulla linea di quello esercitato dal misterioso re di Salem, un sacerdozio più universale (cfr. Ia lettura), capace di unire tutti gli uomini in “un’alleanza” con Dio, nuova e definitiva e di costituire una vera comunità, che condivide fraternamente lo stesso cibo ricevuto come dono gratuito.
Dall’esperienza carmelitana: Beata Madre Crocifissa Curcio:
«L’ostia divina mi penetrò nel cuore, mi annegò nel suo immenso amore, mi ricolmò dei più intimi carismi; sembrava l’incontro di coloro che si amano sino alla follia e che dopo tanti giorni si rivedono : Tu sei il mio calice, la mia pisside, il mio altare». «L’amore che ogni giorno attingete nell’Eucaristia, comunicatelo a tutto il mondo colla preghiera, coi grandi e immensi desideri di salvare tutte le anime e con le parole e soprattutto il buon esempio».
 Preghiera finale
Sostenuti dal sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, compiamo il viaggio della nostra vita. Guarda, Signore il pane della sofferenza, il pane impastato dalle nostre mani di miseria, il pane dello sforzo, il pane del lavoro: dacci oggi, Signore, il nostro pane quotidiano. Che diventi il pane della festa, che diventi il vino dell’amore! Che diventi un canto di gioia sulla terra, che diventi il tuo corpo spezzato e diviso tra fratelli. Amen.

giovedì 27 maggio 2010

LECTIO DIVINA, DOMENICA DELLA SS. TRINITA' ANNO C.


Preghiera iniziale
O Dio, tu che nell’invio del tuo Figlio Gesù ci hai rivelato l’intenzione più chiara del tuo amore nel voler salvare l’uomo, passa sempre accanto a noi rivelandoci i tuoi attributi di compassione, misericordia, clemenza e lealtà. Spirito d’Amore, aiutaci a progredire nella conoscenza del Figlio per giungere al possesso della vita. Fa’ che meditando la tua Parola, in questa festa possiamo scoprire con più consapevolezza che il tuo mistero, o Dio, è un canto all’amore condiviso. Tu sei il nostro Dio e non un Dio solitario. Sei Padre, fonte feconda. Sei Figlio, Parola fatta carne, amore vicino e fraterno. Sei Spirito, amore fatto abbraccio. Amen.
 Prima lettura  Prov.  8, 22 - 31
Il capitolo ottavo del libro dei Proverbi  nel suo insieme, forma una composizione unitaria e ben strutturata e presenta un lungo discorso della sapienza. Il brano liturgico odierno, intende anzitutto manifestare la priorità della sapienza rispetto al creato (vv.22-26); illustra inoltre la posizione della sapienza accanto a JHWH durante l’organizzazione del cosmo (vv.27-30a), e conclude alludendo al legame tra essa e gli uomini/mondo, quindi al suo posto nel creato, manifestando la stessa attitudine positiva di Genesi cap.1, nei confronti dell’operare divino (vv.30b – 31).
vv.22-26 dimostrano che  la Sapienza è divina, trascendente e preesistente alla creazione, come dice più volte e con variazioni “prima di..”; “fin dal principio..”  “quando ancora non..”.
vv. 27-30 attestano che la divina Sapienza è anche contemporanea alla creazione, come dicono tutti i “quando” in positivo: “quando egli fissava i cieli…, quando condensava le nubi.., quando stabiliva al mare  i suoi limiti…, quando disponeva le fondamenta della terra, allora io ero con lui come architetto”: come se la Sapienza fosse appunto l’architetto che esegue a puntino il progetto di Dio creatore.
v. 31 Poi la Sapienza discende al livello del mondo creato per condividere con gli uomini la sua gioia: “mi ricreavo sul globo terreno, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”.  La Sapienza ha compiuto la sua scelta ed è la stessa scelta di Dio creatore. Fra tutte le opere della creazione, viene particolarmente attratta dalla famiglia umana, perché solo con le creature-persone essa può continuare il dialogo che prima intrecciava con Dio.
Il poeta biblico ha avuto la stupenda umana intuizione che anche Dio, quando fa qualcosa di nuovo e di straordinario, non è solo, ma pensa a qualcuno, è un qualcuno, convoca altri a partecipare alla gioia di una comune creatività. Ma, soprattutto, noi sappiamo che con Dio creatore c’era davvero qualcuno: quel Verbo di Dio, quella Parola di Dio che “all’inizio c’era già”, era presso Dio, era Dio” (Gv 1,1), “mediante la quale tutto è stato creato” (Gv 1,2) e che poi “divenne carne” (Gv 1,14) in Gesù Cristo. È  il Verbo incarnato, è Gesù Cristo, la Sapienza di Dio che parla in Prov c.8.
Seconda lettura. Rom 5,1-5
Il brano fa parte di una sezione lunga che va dal capitolo 5,1 – 8,39 dove Paolo espone in modo particolare il dono della salvezza e i frutti della giustificazione attraverso la fede. Nei vv 1-5, l’apostolo presenta l’esperienza dei giustificati caratterizzata dalla pace con Dio e dalla speranza di salvezza eterna.
v. 1. “siamo in pace con Dio”.  È la situazione attuale dei cristiani che, giustificati, si trovano di fatto in un nuovo rapporto con Dio. È questo il primo frutto che rivela il nuovo stato in cui essi si trovano. Secondo Ef 2,14-17 e Col 1,20 si tratta di quella pace che viene da Cristo, morto sulla croce e che egli stesso annunzia con la sua risurrezione (cfr Ef 2,17; 615).
per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”. È una frase che Paolo usa spesso nelle altre lettere e tante volte in questo capitolo e che esprime la mediazione sempre presente e operante di Gesù risorto e glorificato (5,2.9.11.17.21; cfr 1,5; 2,16).
v.2. “di accedere a questa grazia”. Gesù Cristo il risorto, non è solo mediatore di pace, ma lo è anche dell’accesso alla grazia nella quale siamo pervenuti e che abbiamo tuttora.
“Ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio”. È il terzo elemento di un crescendo in Dio: siamo in pace (v.1), abbiamo l’accesso alla “grazia” (v.2a), “ci vantiamo..” (v.2b). La “speranza” costituisce il fondamento, la base su cui poggia il credente per gloriarsi in Dio. È una fiducia profonda che si esterna nella lode. Il vantarsi di Dio, infatti, esprime il senso di riconoscimento e va al di là del poggiare sulle forze umane.
vv. 3-4. Le tribolazioni e le prove della vita non fermano il credente, ma sono addirittura sulla linea del vanto di cui al v.2b il credente applica quella stessa fiducia in Dio anche di fronte alle situazioni apparentemente negative della sua vita, anzi tali situazioni rafforzano la “speranza” e sono motivo di “vanto”. Per Paolo la vita dell’uomo fino alla parusia (l’ultima venuta del Risorto), sarà sempre carica di tribolazioni (cfr 1Cor 7,26.28; 1Ts 3,2ss.; 2Ts 1,3ss.) per partecipare alle sofferenze di Cristo (cfr 2Cor 1,3ss.) e per completarle (cfr Col 1,24). La tribolazione accettata e vissuta nella speranza, produce “pazienza, perseveranza, fermezza, resistenza” e che spesso è unita alla speranza.
v.5. Tale “speranza” provata e rafforzata nelle tribolazioni, non è illusoria perché non è fondata su certezze umane, ma sull’amore di Dio (cfr Sal 22,6 e 25,20). Sarà poi il dono dello “Spirito” che permetterà di fare entrare “l’amore di Dio” nei “nostri cuori”. Possiamo dire che lo “Spirito” è la prova dell’effusione dell’”amore” divino su di noi (8,15-17; cfr Gal 4,6). L’uomo giustificato “per la fede” è afferrato, riempito e rinnovato dall’amore di Dio tramite lo Spirito che si riversa nei nostri cuori.


Il Vangelo Gv 16,12-15
Ancora una volta la liturgia ci offre il brano giovanneo sulla promessa dello Spirito Santo, fatta da Gesù nei  “discorsi di addio”. Nel contesto della riflessione di oggi, poniamo l’accento su due funzioni ministeriali dello Spirito Santo nei confronti dell’opera di Gesù. La prima di esse suona:  lo Spirito Santo “vi guiderà alla verità tutta intera” (v.13a);  mentre la seconda  “vi annunzierà le cose future…” (v.13b-15).
Spiegazione.
v.13a  “Lo Spirito di verità vi guiderà alla verità tutta intera”.  Poiché  “la verità tutta intera” è Gesù Cristo, è l’insegnamento di Gesù e l’insegnamento che è Gesù, la Chiesa e tutti noi – chiesa, siamo impegnati con l’aiuto dello Spirito Santo a capire sempre di più e sempre meglio la persona di Gesù e il significato della storia che egli ha vissuto. A tale proposito, Giovanni usa un’espressione greca particolare che propriamente significa: lo Spirito Santo “vi condurrà verso e dentro la verità tutta intera”. “Dunque, una conoscenza interiore e progressiva. Non un progressivo accumulo di conoscenze, ma un progressivo viaggio verso il centro: dall’esterno all’interno, dalla periferia al centro, da una conoscenza per sentito dire a una conoscenza personale.
vv 13b -15, abbiamo un triplice utilizzo del verbo “annunziare”. Esso non ha semplicemente il senso di “proclamare”, bensì quello di “svelare il significato di una cosa finora segreta e misteriosa” (come in Dn 2,4-27 e 5,12-15). Troviamo, dunque, una conferma del ruolo dello Spirito Santo che non è quello di ripetere l’annuncio già dato e conosciuto, né quello di darci una nuova rivelazione, ma di interpretare nella chiesa la rivelazione anteriore fatta da Gesù (cf. vv. 14-15) e ancora imperfettamente compresa dai discepoli.
Ci possiamo ancora chiedere qual è il senso della frase “vi annunzierà le cose future? (v.13c), sono forse assenti nell’insegnamento di Gesù particolari profezie apocalittiche riservate alla rivelazione dello Spirito? Tutto il contesto lo esclude: la funzione dello Spirito è tutta ordinata alla comprensione della rivelazione di Gesù, completa in se stessa. L’apocalisse di s. Giovanni, che appartiene alla medesima tradizione teologica del quarto Vangelo, ci aiuta a capire il senso di queste parole. Lo Spirito “annunzierà le cose future, perché aiuterà la chiesa a cogliere il senso cristiano della storia, nel suo dilatarsi misterioso lungo l’intero arco della “storia della salvezza”.
Tenendo in mano la Bibbia e nell’altra il libro della vita e della storia, la chiesa, con l’aiuto interiore dello Spirito Santo, sarà in grado di scoprire nei vari eventi le tracce dell’unico disegno di salvezza, saprà comprendere il suo ruolo nella storia contemporanea, tradurrà in risposte “esplicite” l’ “implicito” della perenne parola di Dio, in riferimento alle necessità nuove e ai nuovi problemi di una storia umana in cammino.
La funzione ministeriale dello Spirito nei confronti di Cristo e della sua parola, definisce il nesso profondo tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: la rivelazione è perfettamente una perché riconosce la sua origine nel Padre, viene compiuta dal Figlio e si perfeziona nell’interpretazione dello Spirito. Per questo Gesù nel brano di oggi afferma: “Non parlerà da sé, ma dirà tutto quello che avrà udito… prenderà del mio e ve l’annuncerà” (vv. 13-14).

Una breve riflessione:
I brani della liturgia odierna ci riconsegnano il mistero della Trinità nei suoi aspetti fondamentali. Agli occhi della maggior parte dei cristiani, la Trinità si presenta come una realtà oscura, un mistero di fronte a cui sospendere ogni ragionamento e non, invece, da penetrare e approfondire. Questo va contro il significato biblico di “mistero”, che indica non una realtà oscura e incomprensibile, ma qualcosa che non può essere posseduto o compreso in modo immediato e definitivo, e che chiede alla ragione umana di rimanere aperta ad una sempre maggiore penetrazione.
La Trinità non si presenta come una realtà chiusa in se stessa, irraggiungibile, ma come comunione di vita che tende ad espandersi e raggiungere ogni realtà, attraendola con il suo amore: Dio ha voluto essere più persone che si amano in una comunione di essere, di vita e di donazione assoluti. Il mistero di Dio è legato all’amore che si comunica nell’evento storico della morte e risurrezione del Figlio. Nella Pasqua “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato” (2a lettura v.5)
La scrittura, rivelando la realtà di Dio, non ci offre una serie di concetti, ma una storia del suo agire tra noi e per noi. Si tratta della storia della salvezza nella quale il Dio della creazione e dell’alleanza ha inviato, nella pienezza dei tempi, il suo Figlio e poi lo Spirito Santo perché fosse proseguita l’opera di Cristo stesso. Tutta la nostra esistenza è iniziata, prosegue e si concluderà “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Non si prega semplicemente Dio, quasi un “tu celeste”, ma si prega il Padre “per mezzo” del Figlio “nello” Spirito .
 Dall’esperienza carmelitana: Beata madre Crocifissa Curcio
Mi preparai alla Comunione, con vivi sentimenti di contrizione per miei peccati e per tutti quelli che profanano il giorno Santo. Mentre ero inginocchiata nella Mensa, la lunga schiera degli Angeli e dei Santi che veniva ad incontrarmi assieme allo Sposo Celeste, questa volta si divise in due la lunga schiera e mi invitarono a seguirli, mi presentarono al Trono della S.S. Trinità, compresi da una luce comunicatomi lo Spirito Santo, l'unione d'amore che lo Spirito Santo comunica all'Eterno Padre e al Figlio, gustai una nuova dolcezza trasformata da un fascio di luce che sembrò posarsi sulla mia fronte, (la povera creatura)  al bacio dello Spirito Santo, si deifica con Dio!... chi può descrivere, o mio buon Padre, la bellezza di quest'anima? oh bontà Infinita, quanto sei ammirabile verso Colei che merita il tuo abbandono per le innumerevoli miserie che ancora la ricoprono malgrado i tuoi immensi carismi! Come mi arrossisco, o Padre, come vorrei nascondermi nelle viscere della terra e non confidare a nessuno i favori senza numero che mi regala la Bontà Infinita! (MC Diario, Domenica 21 agosto 19129)
Preghiera finale
Nella Trinità noi viviamo, ci muoviamo e rimaniamo. Nella Trinità siamo resi figli, fratelli santificati nell’amore. Solo in Dio si appagano i desideri dell’uomo: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace fino a quando non riposa in te”(S. Agostino). Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

giovedì 20 maggio 2010

LECTIO DIVINA, DOMENICA DELLA PENTECOSTE, ANNO C.

Preghiera iniziale
Vieni Spirito Santo. Vento impetuoso, fuoco che divora, ma anche brezza leggera, scintilla di luce. Vieni in me. Parola potente, ma anche lieve sussurro. Vieni in me. Fresca cascata, ma anche rivolo d'acqua che estingue l'arsura ...Dammi occhi nuovi, dammi ali di libertà, dammi trasparenza di vita, dammi tenerezza e audacia e attenderò con te, nella speranza, il nuovo Giorno. Amen.
Prima lettura Att. 2, 1-11
Ci troviamo al secondo capitolo degli atti degli apostoli nel quale Luca ci regala due splendide icone, quella dello Spirito (2,1-13) e quella della Parola (2,14-41). La seconda dipende in modo determinante dalla prima: lo Spirito è la forza aggregante che fa di vari gruppi una comunità; la Parola è il dono che la comunità ha il compito di vivere e di comunicare agli altri. La lettura odierna si interessa della prima parte del capitolo, composta da una introduzione, con soggetto e luogo (v. 1), dalla rappresentazione del fatto e delle sue conseguenze sugli interessati (vv. 2-4), e, infine, dall'effetto su scala mondiale (vv. 5-11).
v.1. “mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”.
La Pentecoste (in greco cinquantesimo giorno), originariamente era stata una festa agricola delle primizie e della mietitura ovvero, festa delle sette settimane, dei sette prodotti tipici della terra d’Israele: frumento, orzo, uva, fichi, melograni, olive, datteri. (cf Es 23,16); improntata alla gioia per il raccolto e ringraziamento per il dono ottenuto da Dio. Dopo l’esilio fu trasformata in festa commemorativa di un grande evento salvifico, cioè della promulgazione della legge sul Sinai e la stipulazione dell’alleanza avvenuta al cinquantesimo giorno dall’uscita dall’Egitto e dal passaggio (=pasqua) del Mar Rosso (Es 19,1-20). Infatti, folle di giudei, provenienti da tutta la Palestina e dai paesi della Diaspora, andavano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme per ricollegarsi al loro grande passato, riscoprire le radici del loro essere-comunità dell’alleanza, ritrovare l’amore alla legge mosaica. Quindi, per i giudei, la Pentecoste di quell’anno stava per concludersi; per la piccola e timorosa comunità riunita insieme e formata da apostoli e laici, da uomini e donne (cf. At 1,14); il giorno di Pentecoste stava per “compiersi”: tutta la storia di promesse veniva a compimento. Pertanto è opportuno premettere che la Pentecoste cristiana non si contrappone alla Pentecoste ebraica, né la sostituisce, bensì la porta a compimento.
vv.2-4: in questi versetti l’avvenimento è descritto con coppie di frasi coordinate, ciascuna delle quali presenta un soggetto e un effetto. la prima coppia presenta l’aspetto esterno dell’evento: un rumore che “riempie” la casa. La seconda racconta la visione dei protagonisti: delle “lingue” di fuoco. Queste prime annotazioni accomunano la scena alle grandi teofanie della letteratura giudaica (cfr. Es 19,16ss; Is 5,24). Terzo soggetto sono i discepoli riuniti, che vengono “riempiti” di Spirito Santo e iniziano a parlare in varie “lingue”.
L'esperienza dello Spirito avviene mediante i segni teofanici del vento e del fuoco che vengono dal cielo; non si tratta di suggestione umana, bensì di dono dall'alto. L'esperienza è soprattutto interiore, ma c'è bisogno di un riscontro esteriore che documenti la nuova realtà (cf. il caso del paralitico di Mt 9,l-8). Ecco allora il «parlare in altre lingue». Con questa immagine, Luca sembra volerci dire che i discepoli, ripieni dello Spirito Santo, godono della pienezza della stessa potenza divina, sono ora abilitati dal dono dello Spirito ad essere profeti, di annunciare la Parola di Dio a tutti i contesti sociali e culturali. Esso è un fenomeno della piena comprensibilità del dono della salvezza in tutte le lingue.
vv.5-13; In questi versetti, Luca vuole sottolineare il concetto dell’universalità. Si incontra infatti una lista di 13 popoli e paesi che egli riporta per sottolineare, secondo la geografia imperiale dell'epoca, questo senso di globalità. La lista è divisa in tre parti. Dapprima compare un gruppo di tre popoli che si trovano oltre il confine orientale dell'impero: «Siamo parti, medi ed elamiti» segue un secondo gruppo con nove regioni: «abitanti della Mesopotamia...»; un terzo gruppo si differenzia dai precedenti presentandosi così: «Romani qui residenti». Si distingue poi tra «Giudei e proséliti» (differenze etnico-religiose) e «cretesi e arabi», equivalente alla distinzione tra «abitanti delle isole e della terra ferma» (differenza culturale). Come si può osservare, la linea geografica si è mossa dall'area mediorientale per arrestarsi a Roma, dopo essere passata per le zone intermedie che collegano idealmente Gerusalemme con Roma. In quel giorno a Gerusalemme sono convocati i rappresentanti dei futuri cristiani. Insomma, il dono dello Spirito arriva a tutti. Lo Spinto non restituisce agli uomini un identico linguaggio, ma permette agli apostoli di parlare a individui di ogni lingua e di essere da loro compresi. Si riconosce il dono multiforme e variegato dei carismi e il miracolo-segno del nuovo popolo di Dio, mobilitato dalla forza unificante dello Spirito. Ciascuno dei destinatari, che insieme rappresentano l’universale popolo di Dio, riceve la rivelazione dell’unico Spirito nella maniera che gli è propria.

Seconda lettura Rom 8,8-17
Siamo nel cuore della Lettera ai Romani, dove Paolo, avendo ormai discusso il tema della giustificazione per la fede e non per le opere della Legge, descrive il dinamismo dello Spirito nel cuore e nella coscienza del credente. Possiamo dire che questo brano ci parla della “Pentecoste del credente”. Avviene nell’uomo, con il dono dello Spirito, un miracolo da nuova creazione che ne trasforma l’interiorità per un dinamismo di vita nuova che lo proietta sui sentieri della risurrezione-glorificazione finale.
Tutti i primi versetti (8-13) sono segnati dalla contrapposizione tra “carne” e “Spirito”. Per Paolo questi sono due principi operativi interni che producono stili e comportamenti di vita totalmente opposti. La “carne” è l’io umano ripiegato su se stesso, che tutto riconduce a sé. E per sapere che cosa Paolo intenda per “vivere secondo la carne” o per “le opere del corpo” che qui equivale a “le opere della carne” si legga l’esplicita enumerazione che egli ne fa nel brano di Gal 5,19-21: una lista di vizi e cose del genere, un intreccio di non-valori vasto e complicato, che ha soltanto sapore di morte.
Lo “Spirito”, invece, trasforma l’uomo-carne dal di dentro, lo rigenera e gli fa sperimentare quel “frutto” dello Spirito che in Gal 5,22 viene espresso non casualmente al singolare, quasi a voler sottolineare l’unità e l’armonia del “vivere secondo lo Spirito”, che in ultima istanza è un servizio d’amore. E l’amore apre opportunamente la lista delle esterne manifestazioni dell’unico Spirito: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà mitezza, dominio di sé (Gal 5,22).
vv.14-17: Dopo aver trattato dell'antitesi Spirito-carne, prende avvio il tema della figliolanza divina che si spinge fino al v. 30 (ben oltre il brano liturgico). L'esperienza dello Spirito è tematizzata come esistenza da figli di Dio. Il v. 14 è la tesi teologica che regge tutto il brano, fondata su due poli, la guida dello Spirito e la figliolanza divina: la seconda dipende dalla prima. Lo Spirito, principio di vita nuova in quanto abilita ad essere figli di Dio. Infatti, il cristiano non ha lo “spirito di schiavitù” cioè, non ha lo spirito dello schiavo, ma quello del figlio di casa. È libero nell’amore e per l’amore, perché si sa protetto e amato da Dio che, nel Figlio Gesù Cristo, lo ha adottato. Lo Spirito è anche principio di preghiera nuova. Tale novità non si limita al solo insegnamento, ma egli stesso prega in noi. Non dice quello che dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Egli ci fa dire Abbà. Formula sconosciuta al giudaismo, è invece caratteristica del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Lui solo poteva dire in tutta libertà tale titolo (cf. Mc 14,36), e lui solo poteva autorizzare i credenti a ripeterlo (cf. Gal 4,6). Giunge così a conclusione il cammino dell'Antica Alleanza: si era partiti da una paternità rispettosa ma lontana, e si arriva ad una paternità, sempre rispettosa ma confidenziale. Gesù ha insegnato a colloquiare con Dio con il linguaggio semplice, spontaneo e fiducioso del bambino che si rivolse a suo padre chiamandolo teneramente 'papà', 'babbo'. È lo Spirito che fa ripetere questa dolce parola, che infonde il sentimento della figliolanza divina che ci fa sentire figli di Dio (cf. v. 16). Anche da questa prospettiva si coglie la dimensione trinitaria della vita cristiana.
Il Vangelo Lc Gv 14,15-16.23-26
Contesto:
Il brano evangelico odierno è stato letto, in parte, nella 6a domenica di Pasqua. In quel contesto è stato sottolineato l’aspetto ministeriale che lo Spirito, secondo la promessa di Cristo, ha nella missione della Chiesa: insegnare ogni cosa, ricordare l’evento-parola del Verbo rivelatore e salvatore (vv.25-26). È stato commentato anche l’intima connessione esistente nella vita dei credenti tra “amare Gesù” e “osservare i suoi comandamenti” (vv.15.23-24). Nella riflessione di oggi ci si lascerà guidare dal v. 16. “io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre.”
Spiegazione.
Gesù risorto aveva detto: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b). Si può leggere in parallelo la promessa di Gesù nel Vangelo di Giovanni: “il Padre vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre.” Gesù è stato il primo Consolatore-Protettore dei discepoli nel suo ministero terreno, ora finito; lo Spirito Santo è il “secondo Consolatore” che accompagna la chiesa nel suo cammino fino alla fine del mondo. Inoltre, per sempre non indica solamente una durata temporale. Assicura alla nostra vita che lo Spirito rimarrà con noi anche nei tempi e nei luoghi del nostro peccato e della nostra lontananza da Dio, purché custodiamo la parola di Gesù, nel senso che diamo credito alla sua promessa, affidandoci alla sua potenza di perdono e di misericordia.
Vi troviamo, per lo Spirito, il particolare titolo «Paraclito». Esso compare in tutto il NT cinque volte e ricorre solo nei discorsi di addio (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7) e nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2,1). Il significato base è quello di “chiamato presso” (dal greco kaléo “chiamare” e pará “presso”, cf. latino advocatus, italiano”'avvocato”). Non sembra avesse un significato tecnico, indicando piuttosto un amico o una persona di fiducia “chiamata in aiuto” in occasione di crisi o difficoltà. La radice greca indica anche il conforto, la consolazione che, sappiamo da altri scritti (cf. 1Cor 14,1-3; At 9,31) apparteneva all'attività dello Spirito.
Quindi il cristiano non ha bisogno di vivere con gli occhi rivolti costantemente verso il cielo dal quale dovrà ritornare il Figlio dell’uomo, e neppure con gli occhi rivolti ad un passato, al Gesù terreno, che ormai non è più. Il cristiano ha a che fare con una forma nuova di presenza di Gesù Cristo: Il Consolatore, il Protettore, il Sostegno è d’ora in poi lo Spirito Santo, che attinge a Gesù e non ha altra funzione che non sia quella di rendere comprensibile e attuale il Gesù terreno. Mediante lo Spirito Santo, Gesù può estendere al mondo intero l’opera della redenzione dapprima limitata ad un tempo e ad uno spazio ristretti. Prima lo Spirito era legato alla persona storica di Gesù e agiva attraverso la sua persona; dopo la partenza-glorificazione di Cristo, lo Spirito è presente con la chiesa e nella chiesa e, tramite essa, agirà nel mondo intero.
Come attraverso una forma nuova di “incarnazione”, mediante lo Spirito Santo è all’opera la stessa potenza di vita, viene offerta la medesima salvezza. La Pentecoste realizza “le cinque promesse” fatte da Gesù nel suo discorso di Addio (Gv 14,16-17 e 26; 15,26-27; 16,5-11 e 12-15); e la promessa di Gesù prima di ascendere al cielo: “Voi riceverete una forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni…fino agli estremi confini della terra”
( At 1,8)
Preghiera finale:
Spirito Santo, eterno Amore, che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore; Tu ci guidi qual mano di una mamma; ma se Tu ci lasci non più d'un passo solo avanzeremo! Tu sei lo spazio che l'essere mio circonda e in cui si cela. Se m'abbandoni cado nell'abisso del nulla, da dove all'esser mi chiamasti. Tu a me vicino più di me stessa, più intimo dell'intimo mio. Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende e d'ogni nome infrangi le catene. Spirito Santo, eterno Amore.
(Edit Stein [S. Teresa Benedetta della Croce], Carmelitana).

giovedì 13 maggio 2010

LECTIO DIVINA, ASCENSIONE DEL SIGNORE, ANNO C.


Preghiera iniziale
Vieni, Spirito Santo, a guidare i nostri passi sulla strada tracciata da Gesù. Troppe volte ci sentiamo smarriti e disorientati, sedotti dalle lusinghe di una saggezza che non ha nulla da spartire con il Vangelo. Insegnaci ad essere poveri come è stato Gesù e a riporre la nostra fiducia non nei disegni degli uomini, ma nel progetto di Dio che si rivela nella sua Parola. Vieni, Spirito Santo, a donarci la vera gioia, nutrita ogni giorno di speranza, abbeverata alle sorgenti di acqua viva. Non permettere che ci dissetiamo a pozzi inquinati, che ci lasciamo illudere da percorsi senza via d’uscita. Apri le nostre menti agli orizzonti del Regno, alla sua giustizia e alla sua pace. Amen.
Prima lettura Att.1,1-11
Siamo all’inizio degli Atti degli apostoli e Luca intende ricollegarsi all’opera precedente (il suo vangelo), chiarendo che gli Atti costituiscono una continuazione del vangelo. Infatti, questo brano è come cerniera che unisce le due parti dell’opera lucana e della vita della Chiesa. Quindi, possiamo parlare del tempo prima dell’Ascensione come di quello nel quale Gesù ha posto le basi della Chiesa, e di quello che viene dopo come di uno sviluppo di quanto da lui iniziato. La figura di Gesù sta al centro della scena, ma per lasciare presto il campo ad altri protagonisti. In questo racconto l’autore  presenta i personaggi chiave di tutta la vicenda narrata, anticipa i campi d’azione dove questa si svolgerà e il programma che verrà illustrato nel seguito della narrazione.
L’attenzione del  lettore è attirata sugli apostoli. Gesù sta per lasciarli e lo Spirito Santo è per ora soltanto promesso. Siamo quindi portati a fermarci soprattutto sul presente, secondo l’invito dei “due uomini in bianche vesti” (v.10) che chiedono agli apostoli: “Perché state a guardare il cielo?” (v.11). Il passato, cioè l’esperienza diretta con Gesù, fornisce il contenuto della testimonianza che è loro richiesta. Per il futuro riceveranno la “forza dallo Spirito Santo” (v.8) e dovranno sempre mantenere viva l’attesa del ritorno del Signore (cf. v. 11).
Ma intanto devono lasciare rimpianti e illusioni (“E’ questo il tempo in cui ricostituirai i regno di Israele?” v.6) e disporsi ad andare lontano dalla loro patria “fino agli estremi confini della terra” (v.8). Ormai il regno di Dio predicato è affidato agli apostoli. L’annuncio e la predicazione sono diventati il compito della Chiesa che, se non potrà contare sulla presenza fisica del Maestro, godrà però dell’assistenza del suo Spirito. Ecco il nuovo protagonista che dominerà il racconto degli Atti guidando le scelte e animando la vita delle comunità cristiane.
Il passaggio dalla situazione precedente a quella nuova che li aspetta avverrà grazie ad una trasformazione che sarà operata negli apostoli proprio dallo Spirito. Il testo parla di un “battesimo” che verrà conferito “nello Spirito Santo” (v.5), alludendo alla Pentecoste che segnerà l’inizio ufficiale e solenne della nuova dimensione nella quale si muoveranno gli apostoli e il loro discepoli.
Seconda lettura Ebr 9,24-28; 10,19-23
Il testo riunisce insieme due brani di due diverse sezioni dello scritto. Nel primo brano (9,24-28), appartenente alla sezione centrale della lettera, l’autore insiste sulla comparazione tra l’alleanza antica e quella nuova inaugurata da Cristo, sostenendo la radicale superiorità di quest’ultima. Di fatto, il testo dice: Cristo è entrato in un santuario che è “il cielo stesso” (v.24) per comparire alla “destra di Dio” glorioso e abile mediatore di un’alleanza superiore che possa purificare la persona e renderla perfetta davanti a Dio. La dignità del suo sacrificio è qualificata dall’implicazione della sua stessa esistenza, Egli, a differenza dei sacerdoti del culto levitico, che offrivano “sangue altrui” (v.25), presenta se stesso al cospetto di Dio e con la sua passione ottiene la salvezza per l’umanità. La garanzia, invece, che autentica la sua mediazione sacerdotale, è sottolineata dall’unicità di tale sacrificio. Il suo atto, infatti, è un hapax, l’offerta “una volta per tutte”, superiore ai molteplici tentativi compiuti dai sacerdoti del culto antico (v.26). La sua mediazione è anche fondamento della redenzione. L’opera suprema della nuova alleanza è propriamente il dono della salvezza (v.28), la manifestazione di una salvezza definitiva che non apporta la semplice “remissione” dei peccati (v.22), ma la radicale “abrogazione” (v.26), come messaggio di purificazione globale della persona. Questo sommo sacerdote, accolto degnamente da Dio per il suo “rispetto ossequioso” (5,8), è Cristo, Figlio di Dio glorioso, “causa di salvezza eterna” (5,9) per coloro che docilmente sanno percorrere la via del nuovo santuario celeste.
Nel secondo brano (10,19-23) si tracciano le conseguenze di questa mediazione, i frutti che ne derivano per tutti noi. In realtà, in virtù della mediazione sacerdotale del Figlio, questi “discepoli” di Cristo, santificati dall’irripetibile e definitivo sacrificio del suo corpo, hanno ricevuto finalmente “il diritto” ad accedere nella piena comunione con Dio (v.19). Essi hanno trovato la via d’accesso, quel cammino, “nuovo e vivente” (v.20a), preparato da Cristo. L’unica e assoluta mediazione, gradita a Dio, che ha realmente annullato la distanza che separava la trascendenza divina dall’intensa ricerca umana. Dio si è avvicinato all’uomo e l’uomo l’ha incontrato.
Ma la trasformazione interiore dei credenti prevede il compimento di alcune condizioni, che dischiudono l’accesso verso Dio. La prima condizione riguarda la sincerità della propria scelta di fede (v.22°). La pienezza di fede, infatti, è data dalla rettitudine delle proprie intenzioni e dalla docilità ad accogliere la purificazione della coscienza (v.22b), per mezzo del lavacro rigenerativo del sangue di Cristo. Alla fede l’autore affianca una seconda condizione “la professione della speranza” (v.23). Essa deve rimanere ferma e “incrollabile”, per l’autorevolezza delle promesse messianiche (cfr 6,12; 8,6; 9,15; 10,1), realizzate da colui che “ha attraversato i cieli, Gesù Figlio di Dio” (4,14).
Il Vangelo Lc 24,46-53
Contesto:
Il testo appartiene alla sezione conclusiva del terzo vangelo, che abbraccia l'intero capitolo 24 e lega tra loro strettamente gli avvenimenti che scandirono un'intera giornata, il «primo giorno dopo il sabato» (24,1): le donne scoprirono la tomba vuota e, ricevuto l’annunzio della risurrezione di Gesù, lo comunicarono agli Undici; anche Pietro andò a vedere la tomba vuota e restò «pieno di stupore»; due discepoli che andavano a Emmaus si imbatterono in Gesù, vennero da lui istruiti sul significato delle Scritture e finirono per riconoscerlo nella frazione del pane; finalmente, a tarda sera, Gesù in persona apparve agli apostoli riuniti, diede loro le ultime istruzioni, affidò a loro la missione della testimonianza, li benedisse e si staccò da loro.
Spiegazione del testo
v. 46. «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno. Cosa sta scritto? Dove? L’unica scrittura che noi conosciamo è quella di un incontro. Dio sembra non possa fare a meno dell’uomo, per questo lo va a cercare, ovunque si trova, e non si arrende finché non lo riabbraccia. Questo è ciò che è scritto. Un amore eterno, capace di scendere nel patire, di bere fino in fondo il calice del dolore pur di rivedere il volto del figlio amato. Negli abissi della non vita Cristo scende per prendere la mano dell’uomo e riaccompagnarlo a casa. Tre giorni. Tre momenti. Passione, morte, risurrezione. Questo è ciò che è scritto. Per Cristo e per ognuno che gli appartenga. Passione: tu ti consegni con fiducia, e l’altro fa di te ciò che vuole, ti abbraccia o ti strapazza, ti accoglie o ti respinge… ma tu continui ad amare, fino alla fine. Morte: una vita che non si tira indietro… muore, si spegne… ma non per sempre, perché la morte ha potere sulla carne, lo spirito che da Dio viene a Dio ritorna. Risurrezione: Tutto acquista senso alla luce della Vita: l’amore donato non muore, risorge sempre.
v. 47. E nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. La parola di Gesù, pronunciata nella storia, non si ferma. Ha bisogno di annunciatori. E gli apostoli vanno, mandati nel nome santo di Dio. Vanno a tutte le genti. Non più un popolo eletto, ma tutti gli uomini eletti. Vanno a prendere per le spalle i loro fratelli e a convertirli, a girarli verso di loro per dire: Tutto ti è perdonato, puoi tornare a vivere la vita divina, Gesù è morto e risorto per te! Non è una invenzione la fede. Vengo da Gerusalemme. Ho visto con i miei occhi, l’ho sperimentato nella mia vita. Non ti racconto altro che la mia storia, una storia di salvezza.
v. 48. Di questo voi siete testimoni. Dio lo si conosce per esperienza. Essere testimoni vuol dire portare scritta nella pelle, cucita sillaba per sillaba, la Parola che è Cristo. Quando un uomo è stato toccato da Cristo, diventa come una lampada: anche se non lo volesse, risplende! E se la fiamma volessi spegnerla, si riaccende, perché la luce non è della lampada ma dello Spirito riversato nel cuore, che irradia senza fine la comunione eterna.
 v. 49. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto»Le promesse di Gesù non vengono meno. Lui se ne va, ma non lascia orfani i suoi amici. Sa che hanno bisogno della presenza costante di Dio. E Dio torna a venire all’uomo. Questa volta non più nella carne, ma invisibilmente nel fuoco di un amore impalpabile, nell’ardore di un vincolo che mai più si romperà, l’arcobaleno dell’alleanza ratificata, lo splendore del sorriso di Dio, lo Spirito Santo. Rivestiti di Cristo, rivestiti dello Spirito gli apostoli non avranno più paura, e potranno finalmente andare!
v. 50. Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Il momento del lasciarsi è solenne. Betania, il luogo dell’amicizia. Gesù alza le mani e benedice i suoi. Un gesto di saluto che è un dono. Dio non si allontana dai suoi, semplicemente li lascia per tornare in altra veste.
v. 51. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ogni distacco è sicuramente un evento che porta dispiacere. Ma in questo caso la benedizione è un lascito di grazia. E gli apostoli vivono una comunione intensa con il loro Signore tanto da non avvertire separazione.
v. 52. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia. La gioia degli apostoli è grande, gioia di tornare per le vie di Gerusalemme con un tesoro sconfinato, la gioia dell’appartenenza. L’umanità di Cristo entra in cielo, è una porta che si riapre per non più chiudersi. La gioia della sovrabbondanza di vita che Cristo ha ormai versato nella loro esperienza non si arresterà più…
v. 53. E stavano sempre nel tempio lodando Dio. Stare… un verbo importantissimo per il cristiano. Stare suppone una forza particolare, la capacità di non fuggire le situazioni ma di viverle assaporandole fino in fondo. Stare. Un programma evangelico da portare a tutti. Allora la lode scaturisce sincera, perché nello stare la volontà di Dio è sorseggiata come bevanda salutare e inebriante di beatitudine.
Dall’esperienza carmelitana: Teresa di Lisieux
“Nonostante la mia piccolezza, vorrei illuminare le anime come i profeti, i dottori, ho la vocazione di  essere apostolo. Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome, e piantare sul suolo infedele la tua Croce gloriosa, ma, oh Amato, una sola missione non mi basterebbe, vorrei al tempo stesso  annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo, e fino nelle isole più remote. Vorrei essere  missionaria non soltanto per qualche anno, ma vorrei esserlo stata fin dalla creazione del mondo,  ed esserlo fino alla consumazione dei secoli” (MA 251).
Preghiera finale
Signore Gesù, Tu non abbandoni i tuoi discepoli al loro destino, non li lasci soli ad affrontare i rischi e le fatiche della missione che hai loro affidato. Anzi, salendo al cielo tu puoi essere vicino ad ognuno di loro, ad ognuno di noi. Certo, la tua presenza, Signore risorto, non si impone a nessuno, ma coloro che ti cercano, coloro che ti accolgono, coloro che desiderano mettere in pratica la tua Parola possono contare su di te in ogni momento dell’esistenza, in ogni frangente della storia. Ora ogni uomo e ogni donna, di ogni nazione e di ogni epoca possono incontrarti vivo sul loro cammino. Perché tu ci vieni incontro attraverso la tua Parola, custodita nei vangeli, Parola che rischiara e ridesta i nostri cuori. Perché tu continui a donarti come Pane buono, che dà la vita eterna. Perché tu ci visiti attraverso i nostri fratelli e, particolarmente, in quelli che attendono un aiuto. Ti ringraziamo perché nella tua vita terrena ci hai insegnato tutto e ti sei donato totalmente a noi, e ora che sei salito al cielo continui a sostenerci insieme al Padre nell’unità dello Spirito Santo. Amen.

mercoledì 5 maggio 2010

LECTIO DIVINA , 6ª DOMENICA DI PASQUA ANNO C

Orazione iniziale
Vieni, Spirito santo, nei nostri cuori e accendi in essi il fuoco del tuo amore, donaci la grazia di leggere e rileggere la Parola di Dio per farne memoria attiva, amante e operosa nella nostra vita. Illumina, o Spirito di luce, la nostra mente perché possiamo comprendere le sacre Scritture; riscalda il nostro cuore perché avvertiamo che non sono lontane da noi, ma sono la chiave della nostra esperienza presente. Donaci, Padre, il santo Spirito; te lo chiediamo insieme con Maria, la madre di Gesù e madre nostra e con Elia, tuo profeta nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen!
Prima lettura: At 15,1-2.22-29
Il capitolo 15 rappresenta il punto di svolta nella narrazione di Atti. L’assemblea di Gerusalemme si pone al centro anche fisico di Atti preparando il successivo sviluppo della missione paolina. Infatti, dal cap.16 in poi, Luca si concentrerà unicamente sui viaggi missionari di Paolo fino alla città di Roma.
Nel brano odierno si fa riferimento a una grave crisi che sta scuotendo la chiesa primitiva: Ad Antiochia, dove Paolo e Barnaba hanno compiuto un resoconto entusiasta dell’azione “senza confini” dello Spirito, arrivano alcuni giudeo-cristiani di Gerusalemme e pretendono di imporre l’obbligo della circoncisione ai neo-convertiti dal paganesimo dicendo loro “se non vi fate circoncidere … non potete essere salvi” (v.1). Paolo e Barnaba discutono animatamente contro costoro, perché alla luce della loro fede in Gesù Cristo, ritenevano che a eccezione di alcune direttive importanti (ad es. il Decalogo), molti comandamenti non avevano se non valore provvisorio, limitato al mondo giudaico, ed erano sostituiti dalla fede in Gesù (Paolo dimostra ciò specialmente nella Lettera ai Galati). Ma per risolvere, anzi, per trovare un orientamento comune a tale questione; Paolo, Barnaba e alcuni altri di loro dovettero recarsi alla Chiesa Madre di Gerusalemme.
Nella lettura noi vediamo come la Chiesa sia concorde nell'esprimere il suo giusto punto di vista. Di fatto, a Gerusalemme, con l’autorità degli apostoli e degli anziani, la chiesa cristiana fa la prima esperienza di un concilio (At 15,4-21) e giunge alla decisione fissata in scritto nel cosiddetto “decreto apostolico”. E’ la prima lettera apostolica che porta tutti i tratti: pastoralità, prudenza, discernimento della verità, ispirazione dello Spirito Santo. Essa è affidata agli “uomini tenuti in grande considerazione tra i fratelli” (v.22), perché lo portino alle singole comunità e lo commentino autorevolmente “a viva voce” (v.27). Al di là dei contenuti, ci troviamo di fronte ad una metodologia di assemblea ecclesiale, essa stessa suggerita dallo Spirito e aperta all’attualizzazione: la lettera della comunità di Gerusalemme è introdotta dall’informazione sulla delegazione inviata ad Antiochia (vv.22-23). Ai due delegati di Antiochia vengono aggiunti altri due di Gerusalemme, perché la comunione tra le due Chiese sia espressa dalla visita di rappresentanti della comunità di Gerusalemme in comunione con lo Spirito santo.
Da questo racconto emerge chiaro che sin dall'inizio alla Chiesa si presentarono questioni nuove e imprevedibili, alle quali nessuno sapeva dare subito una risposta. Tuttavia, lo Spirito Santo, l'impegno degli Apostoli e di tutta quanta la Chiesa fecero sì che si approdasse ad una vera e giusta soluzione. Tale evento in fondo, evoca la Chiesa in tutto il suo mistero: è una comunità che cammina nella storia, e in questa sua dimensione è attraversata da tensioni e visioni differenti, sempre impegnata in un faticoso discernimento spirituale della volontà di Dio, chiamata a decisioni che possono anche mutare nel tempo e adattarsi a differenti contesti storici e culturali grazie alla docilità dei suoi membri all’azione dello Spirito Santo.
Seconda lettura: Ap 21,10-14.22-23
In questi versetti continua la descrizione della città santa, la nuova Gerusalemme che è splendente e con nuovi riferimenti simbolici. Essa è costituita di dodici porte, che sono custodite da dodici angeli con i nomi delle dodici tribù di Israele e i suoi basamenti poggiano su dodici colonne, che sono i dodici apostoli. Le porte sono orientate a gruppi di tre nelle quattro direzioni cardinali, a indicare che la Gerusalemme celeste sorge sul punto di congiunzione di tutte le direttrici geografiche.
vv. 10-11. La Gerusalemme celeste risplende dello splendore di Dio
La nuova città, che Dio ha pensato e progettato da sempre e il cui avvento è certo della certezza di Dio, risplende della stessa presenza di Dio. La gloria di Dio, ovvero la sua splendida presenza, non deve entrarvi dal di fuori come accadeva nella Gerusalemme restaurata di Ez 43,1ss. Essa vi dimora già, anzi ne fa essenzialmente parte, la pervade e la illumina interamente. Ciò significa che nella Gerusalemme celeste si dà un’esperienza piena e immediata di Dio. Quanto era promesso e annunciato come realtà futura dai profeti, ora Giovanni lo contempla come realtà presente. Questa Gerusalemme rappresenta la nuova umanità redenta, intimamente legata a Gesù Cristo, essendo la sposa dell'Agnello (21,9).
vv. 12-14 Dodici porte e dodici basamenti e colonne
La struttura comprende “dodici porte”, cioè l’antico Israele fedele (v.12), e “dodici basamenti ”, cioè il nuovo Israele fedele(v.14): così l’Apocalisse abbraccia attraverso il numero simbolico “dodici” l’universale popolo di Dio, l’intera famiglia dei salvati.
Le porte, tre per ognuno dei quattro punti cardinali (v.13), restano “perennemente aperte” (Ap 21,25) a esprimere appunto l’universalità della città-popolo, conforme alla promessa di Gesù: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno alla mensa del regno di Dio” (Lc 13,29).
Il grande e alto muro che circonda la città aperta (v.12a) non ha lo scopo di difenderla da nemici, visto che il Maligno, il male e la morte, sono stati sconfitti definitivamente (cf.Ap 20,7-15). Forse, è simbolo della perfezione e compiutezza della città, come pure simbolo della separazione tra la salvezza e non salvezza: una frontiera discrimina ciò che è dentro la città e ciò che resta irreparabilmente fuori (cf.Ap 21,27 e 22,15)
v. 22. “non vidi alcun tempio: Dio e l’Agnello, il nuovo tempio di luce”
Per il giudaismo l’assenza del tempio era inconcepibile: nel mondo nuovo il tempio sarebbe stato purificato, non eliminato (cf. Mal 3,1ss; Dn 8,14). Invece nella nuova Gerusalemme Dio e l’Agnello sono presenti senza bisogno di mediazioni: “mentre prima gli uomini mediante il tempio cercavano un contatto con Dio entrando nel recinto sacro, ora è Dio stesso che cerca l’uomo, che si dona direttamente a lui stabilendo una correlazione permanente e trasparente”. La Gerusalemme celeste è simbolo della piena comunione tra Dio e l’Agnello, da una parte, e gli uomini dall’altra. Si coglie qui il senso ultimo del messaggio neotestamentario sull’umanità di Cristo come “nuovo tempio” e sui cristiani come “tempio di Dio”, “tempio dello Spirito”. Dio e l’Agnello sono ora, definitivamente, la casa dell’uomo.
v. 23 La città non ha bisogno della luce del sole
Coabitazione perenne tra Dio e gli uomini, e comunione di vita divina vengono infine espresse con la categoria della “luce” (v.25). Nella nuova Gerusalemme non c’è posto per le tenebre e per la notte. L’utopia della luce, espressa da Is c.2 e Is c.60, viene in essa a compimento. Luce come presenza di Dio, luce come vita trascendente e divina, che investe i cittadini della città di Dio, li fa essere, li fa vivere. Dio e Cristo sono questa luce.
Vangelo Gv 14,23-29
Contesto
Ci troviamo nel primo discorso di addio di Gesù che ha avuto inizio in Gv 13,31. I versetti costituiscono la risposta di Gesù a una domanda rivolta da Giuda Taddeo (non il traditore), che a prima vista potrebbe sembrare non avere alcuna relazione con ciò che segue: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?”. La domanda in realtà, riflette bene uno dei dubbi più angoscianti della comunità degli apostoli, perché nella prospettiva messianica allora corrente, il Messia avrebbe dovuto rivelarsi a tutto il mondo e non a un piccolo gruppo di discepoli. Quindi il brano evangelico odierno è costituito dalla risposta del Maestro al discepolo. Gesù risponde qui in un modo che abbraccia molto più di quanto la semplice domanda avrebbe desiderato. E’ una delle caratteristiche del quarto Vangelo esprimere in termini “spaziali” i motivi invisibili dell’amore di Dio che, nel Figlio incarnato, “viene” e “discende” tra gli uomini: partire dall’interrogativo sincero del discepolo per allargare subito l’orizzonte del suo sguardo e oltrepassare di molto lo stesso terreno.
Spiegazione del testo.
vv.23-24.28. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola... Questa verità, qui enunciata in termini positivi, viene poi ribadita in termini negativi («Chi non mi ama, non osserva le mie parole», v. 24) e ripresa più avanti: «Se mi amaste, vi rallegrereste...» (v. 28). Questo amore, di cui parla Gesù, deve possedere due condizioni o prove di autenticità: primo, chi ama Gesù, osserva le sue parole, vale a dire crede e vive di esse; secondo, chi ama Gesù si rallegra che Gesù vada al Padre, cioè sia nella gloria, perché lì Egli si trova nella «casa del Padre» anche in quanto uomo. Per Giovanni amare Gesù significa accoglierlo nella sua realtà sconcertante della sua incarnazione e soprattutto della sua “ora”, che è tempo della passione-glorificazione. I giudei “non hanno amato Gesù” perché si sono rifiutati di accoglierlo (cf Gv 8,42). L’amore per Gesù, fondamentalmente, non è altro che la fede operante, l’accordo profondo della volontà, dell’adesione dello spirito e del cuore, della “fedeltà amante” alla sua parola.
«Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Chi ama Gesù e vive, cioè realizza pienamente le sue parole, diventa un tempio, nel quale dimora Dio. L'inabitazione di Dio nell'anima degli uomini costituisce uno dei doni più grandi che Dio possa elargire a noi sulla terra. In modo misterioso l'anima diventa «cielo sulla terra».
vv.25-26 «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome...» La promessa del “Consolatore” è un altro tema molto presente nei “discorsi di addio” (cf Gv 14,25-26 e 16,12-14). La partenza di Gesù apre il tempo dello Spirito, dal greco (paráclétos): non solo nel senso dell'avvocato che difende gli uomini, ma anche nel senso di colui che parla e intercede in loro favore. «Paraclito» nel senso che noi siamo sostenuti e protetti da lui.
«Vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». Lo Spirito Santo ci proteggerà perché ci farà capire la parola di Gesù, che non è altro che la parola stessa del Padre (v. 24). Svolgerà questo compito dando calore, forza e intelligibilità a tale parola nella nostra vita. Riporta alla memoria quella parola, non come qualcosa di dimenticato, ma come realtà riscoperta a livello più profondo di fede e di gioia cristiana.
v.27 «Vi lascio la pace, vi do la mia pace». Il prezioso bene della pace è dono di Gesù, è lui che ce lo lascia. Dove c'è Dio, ivi è la pace. Questa pace, intimamente commessa con la presenza di Dio, può sussistere anche in mezzo agli assalti o alle insidie del male, anche in mezzo alle sofferenze. Spesso i Santi parlano dell'esperienza di questa pace profonda, che nessuno al mondo può toglierci.
vv.28-29 «Vado e tornerò da voi...». Gesù non si sottrae che al contatto materiale, corporeo con noi. Ma egli ritornerà in due modi: primo, con lo Spirito Santo; secondo, alla fine dei tempi come Risorto nella sua gloria.
Messaggio globale
Noi siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste - ma solo a condizione di essere già per via, protesi verso la meta - che è Gerusalemme stessa a scendere verso di noi in tutta la sua bellezza, per compiere il nostro desiderio e il nostro pellegrinaggio. In questo cammino, come ci ricorda Gesù nel vangelo di Giovanni, dobbiamo portare con noi un bagaglio sobrio, essenziale ma indispensabile. Innanzitutto una parola da osservare e custodire, o meglio, quella parola che è Gesù stesso come rivelazione definitiva del Padre. Dimorando in lui e nel suo amore siamo certi di essere già in comunione con il Padre, anche nel tempo del nostro pellegrinaggio. A consentirci di rimanere nella Parola c'è il dono dello Spirito Santo – il secondo bene essenziale da portare con sé - che ci insegna ogni cosa ricordando tutto ciò che il Signore Gesù ci ha detto. Quello dello Spirito è un insegnare ricordando, consentendoci di approfondire la rivelazione di Gesù e anche di discernere nella sua luce le decisioni da assumere di volta in volta, di fronte ai problemi che man mano insorgono lungo il cammino. Appunto come accade nel concilio di Gerusalemme, quando le decisioni vengono prese sulla base di quanto «è parso bene allo Spirito Santo e a noi» (v. 28). Un terzo bene da portare con sé è la pace donata dal Signore, che vince ogni turbamento e timore. Non mancano infatti lungo la via rischi, pericoli, ostilità, scelte coraggiose da assumere. Tutto può però essere affrontato senza paura, nella pace che è dono del Signore e non del mondo, e che dunque possiamo accogliere se siamo disponibili a una comunione con il Signore che ci converte dalle logiche mondane per farci aderire sempre di più al suo stesso 'sentire'.
Preparando in questo modo il bagaglio per il viaggio ci si accorge tuttavia che si porta con sé un bene infinitamente più grande: la presenza stessa di Dio che cammina con noi e in noi. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Già lungo il cammino si gusta anticipatamente ciò che ci attende al suo compimento: il Padre e il Figlio abitano in noi così come il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello abitano nel cuore della Gerusalemme celeste.
Preghiera finale
La tua parola, Gesù, è una luce che illumina il nostro cammino e ci permette di affrontare la complessità di ogni giorno senza perdere l’orientamento. La tua parola, Gesù, è sorgente di saggezza: ad essa possiamo attingere per le scelte e le decisioni che imprimono una direzione ed un senso alla nostra esistenza. La tua parola, Gesù, è come un fuoco che brucia in noi tutto ciò che è contrario al disegno di Dio ed accende sentimenti nuovi ed un coraggio sconosciuto. La tua parola, Gesù, esige non solo un ascolto attento ma anche un cuore docile, disposto a metterla in pratica, a farla fruttificare. Per questo tu ci doni il tuo Spirito: perché ci faccia ricordare ogni tua parola, ci strappi al turbamento, ci doni un desiderio nuovo di annunciare e di vivere il tuo Vangelo in ogni circostanza, perché in questa terra lacerata crescano la compassione e la misericordia. Di tutto questo, noi ringraziamo Te nell’unità del Padre e dello Spirito Santo, Amen.